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lunedì 26 gennaio 2015

Il biennio rosso (1919-1920)



Tra la fine del 1918 e il 1920 in tutta Europa i lavoratori (suggestionati dal successo della Rivoluzione russa) diedero vita ad una serie di agitazioni per migliorare le retribuzioni e ottenere la riduzione dell'orario di lavoro. Anche in Italia, la classe operaia chiedeva miglioramenti economici e sociali. Anche nel settore dei servizi pubblici ci fu una serie di scioperi. Queste agitazioni convinsero l'ala più estremista del Partito socialista (massimalisti, cui si opponeva la corrente dei moderati di Turati) che anche in Italia era possibile una rivoluzione proletaria: nel 1920 in molte città gli operai proclamarono l'occupazione delle fabbriche, di fronte alla serrata con cui gli industriali avevano risposto alle richieste dei lavoratori.
Anche nelle campagne, i contadini e i braccianti del Centro-Sud chiedevano l'attuazione della riforma agraria promessa durante la guerra e cominciarono l'occupazione delle terre incolte e dei latifondi.
Il governo, guidato da Giolitti, non usò la forza pubblica contro le occupazioni ma attese che un accordo fra operai e industriali ponesse fine alle occupazioni.
Il cosiddetto "biennio rosso" del 1919-1920 si concluse con un successo degli operai, che videro soddisfatte una parte delle loro richieste, ma segnò la crisi politica del Partito socialista (da cui infatti in seguito si sarebbe scissa la corrente comunista che con il congresso di Livorno, nel gennaio 1921, diede vita al Partito comunista) e impaurì la borghesia (eccessivamente timorosa di una rivoluzione proletaria anche in Italia) che cominciò a chiedere maggiore fermezza e autorità nella tutela dell'ordine pubblico.

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